sabato 31 gennaio 2015

DONNE SUPERSTAR

Secondo gli insegnamenti della yoga, disciplina meditativa che pratico nella forma dell'ashtanga da quasi una decina di anni, le quattro del mattino è l'ora con l'aria più sottile, adatta alle tensioni più dinamicamente cerebrali della giornata. Confermo! Spesso mi trovo a scrivere in questi orari disumani con profitto tale che, diversamente, non troverei.

Sono uscita d'ospedale da poco. Ricoverata, operata, dimessa in meno di 60 ore per l'asportazione di un nodulino al seno sinistro nel reparto di ginecologia della Clinica Mangiagalli di Milano. Noto con sorpresa che le donne sono solidali solo quando parlano delle problematiche di salute femminile. Già nel 2002 fui farmacologicamente trattata per una gravidanza extra-uterina in un ospedale nell'oscura provincia torinese. Ne conseguii medesima impressione a tal punto da scriverne un musical dal titolo: DONNE SUPERSTAR. Iniziai a metterlo in scena con la neonata compagnia di attori, ma dovetti abbandonare per via dei fatti che hanno condotto alla scrittura di CORPI RIBELLI – resilienza tra maltrattamenti estalking.

Allora a 38 anni nella provincia torinese come oggi a 50 nella città milanese, ebbi la fortuna di cogliere il sentimento unitario di aggregazione tra donne con patologie femminili. Contro l'opinione baroneggiante dell'illustre primario, che voleva “tagliare via tutto dato che ormai ero una vecchia ciabatta” (cit.), caparbiamente volli sottopormi al trattamento farmacologico che mi era stato proposto dal suo stesso vice pochi istanti prima. Non vi erano in corso emorragie né versamenti, avevo desiderio di altri figli, quindi ne avrei tratto vantaggio. Risposi perciò a quel Barone della medicina: Si tagli le sue, di palle! Alle mie ci tengo! Applausi (mentali) dalle altre pazienti.
Da quel momento divenni la loro leader naturale.
Vi era una marocchina incinta che aveva vomitato sangue, si rivelò solo yogurt alla ciliegia.
Vi era un'altra extra-uterina dell'Europa dell'Est, lei sì in crisi emorragica.
Vi era un'italiana con dolori mestruali, pur non avendo mestruo.
Le ricordo tutte con affetto, sebbene i loro applausi restarono solo mentali.
Vi restai una settimana. Ottenni il mio scopo. Il primario mi definì: Coriacea. Quattro anni dopo nacque mia figlia, non a caso Sofia.

A distanza di 12 anni e in altra città, questa volta cosmopolita, le cose sono diverse: niente baronie, almeno nei rapporti con le pazienti. Ma sempre tanta solidarietà tra loro. Ho avuto ben poche ore da trascorrere in compagnia, ho potuto ascoltare solo la storia della mia compagna di stanza e assistere ai festeggiamenti di un'altra “inquilina a lungo termine” del reparto. Non ho avuto il tempo di capire cosa festeggiasse, ma mi è parso nobile che con un sacchetto di piscio pendente dal pantalone e la faccia stravolta di una donna cui era appena stato asportato l'utero, avesse voglia di festeggiare.
Anche alla mia compagna di camera era stato asportato lo stesso organo riproduttivo. Quando entro nella stanza, si lamentava flebilmente. Era provata. Stringeva la mano al marito accudente. Tiro la tenda che ci separava per rispetto al suo dolore. Il giorno dopo tocca a me di essere operata. Nel pomeriggio sto già benino e lei, dopo 4 fiale di morfina, molto meglio. Finalmente mi azzardo a rompere il ghiaccio e conosco la sua storia di dolore; superando la naturale diffidenza da napoletana trapiantata al nord, dove si è sentita da quasi trent'anni rifiutata, si confida a me, cuore ed utero. L'avevo creduta musona, invece.

Ed ecco le mie riflessioni. Poche settimane fa un alto esponente politico della Regione Lombardia (non faccio nomi perché è già stato ampiamente pubblicizzato sui periodici) ha avuto un'infelice uscita circa la “malattia di essere gay”. Malattia? Gay e non si sono rivoltati in massa, senza porre tempo in mezzo. Sulla prima pagina del Corsera vi è una foto di un amico mio che bacia il suo compagno mentre manifesta in piazza Gae Aulenti. Sono orgogliosa di loro.

Però mi scatta una riflessione: alla notizia dei tagli ai centri Anti-Violenza, noi donne siamo state zitte. In ospedale, con le nostre malattie, tutte solidali. Fuori, con le malattie della società, zitte, ognuna per sé.

PERCHE'?

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