Il mio nome è Pastori,
Stefi PASTORI, come quelli delle pecore. Voglio sottolineare
l'importanza del cognome. Il cognome è la nostra missione, come dice
un antico adagio Nomen Omen. Conduco verso la salvezza le pecorelle
smarrite nelle violenze in casa. Perché il mio motto per loro è:
VIA DALLE VIOLENZE DOMESTICHE PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI. Ho scritto
un saggio contro i maltrattamenti in famiglia. Titolo: CORPI RIBELLI– resilienza tra maltrattamenti e stalking. E' una vera e propria
guida per uscirne perché contiene nomi e recapiti di coloro che
salvano le donne maltrattate. Ma non sono qui per parlarvi di questo.
Sono qui per parlarvi di Artemisia
Lomi, detta Gentileschi, antesignana del femminismo. Premettendo che
essere femminista non significa necessariamente essere lesbica,
frigida o camionista, affermo con forza e determinazione di essere
femminista. Nonostante certe illazioni strumentali reperite sul web
nei circoli lesbici, forse legati ad un episodio della sua vita,
quello che la vede coinquilina nonché amica di una ex vicina di
casa, che poi ha dipinto nei suoi quadri, la Gentileschi non fu
dedita all'amore lesbico. Anzi, i suoi liberi costumi sessuali sono
noti a tutti fin dagli anni della sua gioventù.
Giuditta che decapita Oloferne. Ora, vi chiedo di osservare questo
quadro, conservato al Museo Nazionale di Capodimonte. De
la Giuditta che decapita Oloferne, un noto critico d'arte, certo
Longhi scrive:
La lettura del dipinto sottolinea cosa
significhi saperne di pittura, e di colore e di impasto: sono evocati
i colori squillanti della tavolozza di Artemisia, le luminescenze
seriche delle vesti (con quel suo giallo inconfondibile),
l'attenzione perfezionistica per la realtà dei gioielli e delle
armi.
Io, che fui Art Director nelle più
importanti Agenzie Pubblicitarie di Milano, ho qualche strumento atto
a definirlo, pur nella sua crudezza, opulento nelle persone, nelle
vesti e nei gesti rappresentati. Opulento.
Spegniamo l'opera, perché ora vi
leggerò parole di Artemisia Gentileschi, poi vi mostrerò di nuovo
questo quadro e so che lo vedrete con occhi diversi.
« Serrò la camera a chiave e
dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano
sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch'io non potessi
serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per
alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca
acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l'altra mano
mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le
mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere
e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli
et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro
che gli ne levai anco un pezzo di carne »
Questa la testimonianza diretta di
Artemisia Gentileschi al processo di stupro, secondo le cronache
dell'epoca, conclusosi nel 1611. Tenete a mente l'anno, vi verrà
utile tra poco: 1611. Per inciso, vi confesso che la prima volta in
cui lessi le sue parole, piansi.
Ora so che riguardando la
tela, Giuditta che decapita Oloferne (1612-13), avrete un
diverso moto dell'anima. Vi prego di rilevare quanto sia
impressionante la violenza della scena. Specialmente dopo aver
ascoltato la testimonianza dello stupro!
La data del processo: 1611. La tela:
tra il 1612 e il 13. Ora, se sapete che la Gentileschi fu stuprata
PRIMA DELLA TELA, sapete anche che l'opera è stata interpretata in
chiave psicologica e psicoanalitica, come desiderio di rivalsa
rispetto alla violenza subita. Più che rivalsa, la chiamerei
RESILIENZA.
RESILIENZA, ovvero quella capacità
intrinseca all'animo umano di trasformare il dolore e la sofferenza,
anche la più atroce, in ricchezza interiore. Perché tutta la storia
della Gentileschi parla di RESILIENZA.
In una società come quella del XVII
secolo in cui alle donne era fatto divieto di accedere alle scuole di
bottega per diventare pittrici, immaginate quanta sofferenza debba
aver assorbito la Gentileschi nel sapere che, durante il processo di
stupro, gli accoliti dello stupratore insinuarono nella mente dei
giudici e nell'opinione pubblica tanti dubbi circa la sua
virtuosità. Con false testimonianze, l'accusarono di essere una
donna dai facili costumi e dedita alla promiscuità sessuale. Che se
la intendeva persino col padre.
Considerate che quella fu un’epoca in
cui una donna già deflorata non poteva essere considerata vittima di
stupro! Infatti, studi recenti hanno rilevato che nel Seicento il
processo era basato sul concetto di stuprum, inteso come
deflorazione di donna vergine o come rapporto sessuale dietro
promessa di matrimonio non mantenuta. Il padre di Artemisia denunciò
un suo collega (un certo Tassi, non lasciamo all'oblio i nomi dei sex
offenders, vi prego!) che dopo la violenza non aveva potuto rimediare
con un matrimonio riparatore. Quel Tassi difatti era già sposato (e
nel frattempo manteneva anche una relazione incestuosa con la sorella
della moglie). Del processo che ne seguì è rimasta esauriente
testimonianza documentale, che colpisce per la crudezza del resoconto
di Artemisia e per i disumani metodi inquisitori del tribunale.
La Gentileschi ha avuto non solo il
coraggio di testimoniare, ma persino di sottoporsi allo
schiacciamento dei pollici per confermare l'attendibilità delle sue
accuse, cosa che per lei, pittrice, non dovette essere solamente
umiliazione e dolore fisico.
Se pensiamo che ancora oggi le donne
stuprate o vittime di violenza non hanno il coraggio di denunciare,
possiamo davvero far assurgere la figura della Gentileschi
all'empireo delle eroine (qui mi venne da scrivere EROI, pensate come
il linguaggio stesso sia imbevuto di misoginia! Ad esempio, avvocato
per definire una donna avvocata, consigliere per una donna
consigliera, assessore per una donna assessora, presidentessa per una
presidenta – lo so, quest'ultima è mera una provocazione - Questo
argomento meriterebbe una serie di considerazioni a parte!)
Un paio di fugaci considerazioni in
merito: tutt'oggi, le donne che denunciano stupratori, spesso NON SON
CREDUTE. Più spesso di quanto sia lecito credere, sono sottoposte
alla gogna mediatica (un esempio su tutti: giornalisti che le
accusano di vestire discinte) e persino a quella di coloro che invece
dovrebbero essere preposti alla loro tutela (carabinieri che nel
raccogliere la querela, la sottopongono ad interrogatori lunghi e
stressanti), o peggio davanti al Giudice (avvocati in difesa dello
stupratore che, alludendo a presunti comportamenti libertini, le
criticano). In definitiva subiscono una seconda vittimizzazione.
Esattamente come accadde ad Artemisia Gentileschi 4, sottolineo
QUATTRO secoli fa.
Gli atti del processo (conclusosi con
una lieve condanna del Tassi) hanno avuto grande influenza sulla
lettura in chiave femminista della figura di Artemisia
Gentileschi.
Infatti, negli anni settanta del
novecento, la Gentileschi diventò un simbolo del femminismo
internazionale e del desiderio di ribellarsi al potere maschile.
Contribuirono all'affermazione di tale immagine la sua figura di
donna impegnata a perseguire la propria indipendenza e la propria
affermazione artistica contro le molteplici difficoltà e pregiudizi
incontrati nella sua vita travagliata.
Quindi, non solo lo stupro, ma anche il
coraggio di scelte libertarie pre e post violenza ci consentono di
guardare alla Gentileschi come modello di resilienza.
Pensate che per una donna all'inizio
del XVII secolo dedicarsi alla pittura, come fece Artemisia
Gentileschi, rappresentava una scelta non comune e difficile, anche
se non eccezionale. Se ne possono ricordare una decina, sue
contemporanee. Ma sempre troppo poche rispetto ai numerosi colleghi
maschi. L'apprendistato presso papà Orazio
rappresentò per Artemisia Gentileschi l'unico modo per esercitare
l'arte, essendole precluse le scuole di formazione: alle donne veniva
negato l'accesso alla sfera del lavoro e la possibilità di crearsi
un proprio ruolo sociale. Una donna non poteva realizzarsi puramente
come lavoratrice, ma doveva perlomeno sostenersi col proprio status
familiare; il lavoro femminile non era riconosciuto alla luce del
sole, ma si realizzava perlopiù clandestinamente, come dimostrano i
registri delle tasse e i censimenti.
La Gentileschi riprese dal padre Orazio
il limpido rigore disegnativo, innestandovi una forte accentuazione
drammatica tratta dalle opere del Caravaggio, caricata di effetti
teatrali; stilema che contribuì alla diffusione del caravaggismo a
Napoli, città in cui si era trasferita dal 1630 e che la rese
famosa nel mondo conosciuto di allora.
Sposata ad un modesto e opaco pittore,
la Gentileschi si trasferì a Firenze, dove ebbe quattro figli, di
cui la sola figlia Prudenzia visse sufficientemente a lungo da
seguire la madre nel ritorno a Roma poi a Napoli. L'abbandono di Roma
fu quasi obbligato: la pittrice aveva ormai perso il favore acquisito
e i riconoscimenti ottenuti da altri artisti, messa in ombra dallo
scandalo suscitato, che fece fatica a far dimenticare. Difatti anche
gli epitaffi alla sua morte furono crudelmente ironici.
Il successo, unito al fascino che
emanava dalla sua figura, alimentarono motteggi e illazioni sulla sua
vita privata.
Artemisia Gentileschi si stabilì a
Roma come donna ormai indipendente, in grado di prender casa e di
crescere le figlie. Oltre a Prudenzia, ebbe una figlia naturale, nata
probabilmente nel 1627.
Dopo Roma e Napoli, LONDRA. Nel 1638 Artemisia raggiunse il padre a
Londra presso la corte di Carlo I, dove era diventato pittore di
corte e aveva ricevuto l'incarico della decorazione di un prestigioso
soffitto di rappresentanza.
Dopo tanto tempo, padre e figlia si
ritrovarono legati da un rapporto di collaborazione artistica, ma
dubito che il motivo del viaggio londinese fosse solo quello di
venire in soccorso all'anziano genitore. Certo è che Carlo I la
reclamava alla sua corte per la notorietà e perizia di Artemisia
Gentileschi, ormai rinomate presso le corti europee. Un rifiuto non
era possibile.
L'interesse per la figura artistica di
Artemisia Gentileschi ebbe un forte impulso per merito di studi in
chiave femminista che efficacemente sottolinearono la forza
espressiva del suo linguaggio pittorico, specie quando i soggetti
rappresentati sono eroine bibliche, che pare vogliano manifestare la
ribellione alla condizione in cui le condanna il loro sesso.
In un saggio contenuto nel catalogo
della mostra svoltasi a Roma e poi a New York, Judith W. Mann prende
le distanze da una lettura in chiave strettamente femminista,
mostrandone i limiti:
«[Una lettura di questo tipo] avanza
l'ipotesi che la piena potenza creativa di Artemisia si sia
manifestata soltanto nel raffigurare donne forti e capaci di farsi
valere, al punto che non si riesce a immaginarla impegnata nella
realizzazione di immagini religiose convenzionali, come una Madonna
con Bambino o una Vergine che accoglie sottomessa l'Annunciazione; e
inoltre, si sostiene che l'artista abbia rifiutato di modificare la
propria interpretazione personale di tali soggetti per adeguarsi ai
gusti di una clientela che si presume maschile. Lo stereotipo ha
avuto un doppio effetto restrittivo: inducendo gli studiosi sia a
mettere in dubbio l'attribuzione dei dipinti che non corrispondono al
modello descritto, sia ad attribuire un valore inferiore a quelli che
non rientrano nel cliché.»
La critica
più recente, a partire dalla ricostruzione dell'intero catalogo di
Artemisia Gentileschi, ha inteso dare una lettura meno riduttiva
della carriera di Artemisia Gentileschi, collocandola nel contesto
dei diversi ambienti artistici che la pittrice frequentò,
restituendo la figura di un'artista che lottò con determinazione,
utilizzando le armi della propria personalità e delle proprie
qualità artistiche contro i pregiudizi che si esprimevano nei
confronti delle donne pittrici; riuscendo a inserirsi produttivamente
nella cerchia dei pittori più reputati del suo tempo, affrontando
una gamma di generi pittorici che dovette esser assai più ampia e
variegata di quanto ci dicano oggi le tele a lei attribuite.
Concludo dicendo che, sebbene eroina
del femminismo, o forse proprio per questo, Artemisia Gentileschi
meriti anche oggi quei riconoscimenti artistici già vivi ai tempi
suoi, attribuiteli persino dai regnanti durante la sua vita.